mercoledì 15 aprile 2020

diario 2

mi fumo del tabacco e mi bevo del porto.
non so da dove ripartire perché le giornate, in particolare oggi, sono una cosa sulla quale scivolo un po' così. il problema mi pare sia il tempo. il tempo dedicato. è come se il futuro si fosse ristretto. senza l'aria, la prospettiva si restringe talmente tanto che qualsiasi esercizio di distensione diventa incerto.
inoltre c'è il problema dell'eroismo. non c'è spazio per alcun eroismo. neppure la morte, adesso, può essere eroica. si tratta di morti senza nome, morti tutte in fila e anonime. l'anonimato di un'umanità compita e contrita. quello che non è riuscito alla religione sta riuscendo alla pandemia. il peccato, la colpa. siamo colpevoli di avere un corpo, un ingombro.
gli uccelli. questa mi pare l'era degli esseri lievi e leggiadri. leggeri. con le fattezze più da anima.
non sopporto più niente. la mia sensibilità ha una soglia di tolleranza zero. zero per la voce degli altri al telefono via internet in ogni forma. ma anche la mia stessa voce mi risulta eccessiva. che bisogno ho, della voce? quando vorrei dileguarmi. la non esistenza è, al momento, la forma migliore, più virtuosa di esistenza.
mai, credo, è accaduto di ambire al nulla più sconsiderato. alla nullità del pulviscolo impalpabile.
il canto degli uccelli. il vento.
ascolto il vento.
ascolto i suoni del fuori. la natura che recupera spazio con lentezza.
la lentezza che pervade ogni ora, ogni gesto.
ho comprato tre piantine di zucca, una piantina di peperoncino e una piantina di pomodori.
ho piantato nell'orto le mie piantine. ho zappato la terra. zappando mi sono sentita una impostora. ho zappa con le mani inutili, con forza discutibile.
ma ho zappato con vigore inedito.
non so fare altro al momento.
non so proporre altro, alla terra.
la sera, tutte le sere, provo nostalgia per qualcosa.
la nostalgia, in questo momento, è un privilegio.
avere qualcosa per cui provare nostalgia è come avere una scatolina segreta. una riserva di sogno.
la voce e alcune parole gentili che ricordo di aver sentito. erano mie.
riabilito tutte le voci gentili. le rianimo.
sono, ora, la mia sola salvezza.




martedì 14 aprile 2020

diario 1

la situazione è la seguente: sul calendario di aprile c'è una sola data segnata. un tondino che circonda il 23. è il giorno in cui dovrò mettere il non differenziato vicino al tombino.
la situazione è la seguente: non c'è niente.
dopo, a maggio, neanche un tondino.
sono sola col cane da oltre un mese e ci facciamo compagnia. lui sta sdraiato sul divano e aspetta le passeggiate. facciamo due passeggiate, una al mattino e una la sera.
a volte, durante le uscite, succede qualcosa di inaspettato. un evento o qualcosa che gli assomiglia molto, che mi lascia col fiato sospeso qualche minuto.
una volta ha visto un fagiano e l'ha inseguito per un po'. una volta si è messo a correre lungo la collina e di lui vedevo solo la scia nel grano. le emozioni forti finiscono qui.
il resto del tempo lo passiamo sul divano o, quando mi sveglio piena di buone intenzioni, a fare un tutorial di yoga sul tappetino.
il mio cane si chiama Orlando. è un nome che aveva già quando l'abbiamo adottato. una volta avevo un marito. è stato con lui che abbiamo deciso di prendere orlando. siamo andati vicino a un casello dell'autostrada e abbiamo mangiato un panino e abbiamo aspettato che arrivasse la staffetta. quando la staffetta è arrivata ha svuotato il furgone che era piano di cani e gatti da adottare. a turno tutti andavano a prendersi il loro animale. anche noi, quando abbiamo sentito il nome Orlando, siamo andati vicino al furgone. la signora del furgone era bassa e tozza, molto volitiva. aveva i capelli spazzola e l'aria da camionista. ha sollevato Orlando e la posato per terra. Lui teneva la testa bassa come se stesse chiedendo scusa. l'abbiamo sollevato e l'abbiamo portato in macchina. durante il viaggio di ritorno per tutto il tempo abbiamo pianificato la vita. parlavamo di grandi cose. grandi progetti intorno a questo nuovo cane. ma tutti questi progetti poi si sono arenati. io e Orlando siamo rimasti a vivere per conto nostro e mio marito ha preferito andarsene da un'altra parte, perché gli davamo sui nervi.
la notte, e a volte anche la mattina molto presto, mi sveglio perché ho paura di morire. la paura di morire mi fa sentire un grande senso di mancanza d'aria all'altezza del cuore. penso: se muori adesso, chi saprà quello che potevi ancora fare se non fossi morta?
e dopo mi dico: oggi farai tutto quello che è in tuo potere per remare dalla parte della vita.
penso di mangiare cose sane e di non fumare. butto il tabacco, dico la mattina. basta farsi del male.
poi quando arriva la luce è come se molte cose svanissero.
una volta quando ancora avevo questo marito, io attribuivo a lui l'arte di riportare la luce. invece no. la luce arriva lo stesso. anche senza di lui.

al telefono mi lamentavo con mia madre. non so cosa fare, le dicevo. cosa vuoi fare? diceva lei. non so. scrivere non mi va. mi sembra una cosa intuibile scrivere.
allora non scrivere, dice lei. fai l'orto. almeno, alle brutte, hai qualcosa da mangiare.
l'ifa dell'orto mi piaceva, anche se non sapevo proprio da che parte di comincia.
prendi un pezzetto di terra e lo zappetti, poi compri i piantini e li ficchi nel terriccio - ha detto mia madre.
dove lo prendo i piantini?
li compri alla serra.
che piantini devo comprare?
prendi i piselli e un po' di altra roba - ha detto mia madre.

lei, i suoi orti, li fa sempre che sono un casino. nell'orto di mia madre non si sa mai dove sono le cose. cammini nel suo orto, guardi per terra, sposti le erbacce e sotto puoi trovarci uno zucchino e dei pomodori  striscianti.
ma non bisognava mettere i bastoni per farli arrampicare, le avevo chiesto l'anno scorso.
sono filosofie. i pomodori crescono lo stesso, anche senza il bastoncino, solo che ti devi chianare, ha detto mia madre.
mia madre voglio dire, tutto quello che fa lo fa alla cazzo. però, questo lo devo ammettere, alla fine le cose nascono e crescono.

ho cominciato a fare l'orto. e questo grazie al padrone di casa che mi ha messo a disposizione un po' del suo terreno. il padrone di casa mia si potrebbe dire che sia l'opposto, l'antitesi, la nemesi di mia madre. è ordinato in tutto, anche nell'orto. ha due vasconi per l'acqua e i terrazzamenti con le strisce per piantare. nel suo orto mi ha detto, scelga un posto che le piace e zappetti pure. mi ha lasciato anche la sua acqua per bagnare.

il primo giorno mi sono data molto da fare con la zappa (la zappa me l'ha prestata lui).
ho zappettato la terra e mi sono sentita felice.
ho chiamato due miei ex fidanzati per dire loro : ho fatto l'orto. si sono complimentati e entrambi hanno detto più volte che era un'ottima idea, perché secondo loro io avevo bisogno di questo tipo di cose. concrete, reali. che avevano a che fare con la terra. anche per quella questione della notte e del mattina presto.
ho mandato in giro le foto del mio pezzetto di terra zappettato, per far vedere che quello l'avevo fatto io, con le mie mani.
dopo mi sono accucciata a frantumare la terra che era rimasta ancora a zolle tra le dita. frantumavo le zolle, una ad una, con le mani e intanto erano le otto e quasi mezzo. era tardi e il tempo era passato in un modo bellissimo. era come se il tempo andasse allo sesso passo della vita, senza scivolarci sopra.
allora mi sono detta che la vita dovrebbe essere sempre così, andare a quel passo. essere piena di un tempo che danza allo stesso ritmo dei gesti e delle zolle di terra.
premi sentivo anche una novizia. come una che crede di aver capito tutto ma che non ha capito niente.
le mani dopo, quando mi sono tolta i guanti, erano piene di vesciche e mi bruciavano.
sono tornata a casa e ho chiamato mia cugina.
guarda che mani, le ho detto.
lei ha guardato le mani e si è complimentata. brava, ha detto. credo sia stata una scelta molto saggia.
Anche lei lo pensa.
Tutti pensavano questo di me, che dovevo fare l'orto. Perché nessuno me l'ha detto prima?

il romanzo che stavo scrivendo era di ottanta pagine. poi ho ricominciato a lavorarci ed è diventato di quaranta. poi a furia di lavorarci e lavorarci sono rimaste dieci pagine. tutto il resto mi sembrava inutile o disonesto. un gigioneggiare col passato e con i sentimenti.
Ho chiuso il file. Con questo è il terzo file di un romanzo che prima asciugo e asciugo e poi chiudo.
E' come se le storie non mi convincessero. la trama, anche se è una trama vera, la sento che via via diventa artefatta. perché è la trama, proprio la trama, che alla fine diventa una specie di parodia di se stessa. la trama è inconsapevole quando si crea, ma dopo, nel descriverla, è come se si vestisse di qualcosa che non era suo.  un vestitino da festa, che la rende insopportabile.
nelle vite, le cose davvero importanti sono sparse a caso, non fanno parte di una parabola precisa. appena cerchi di inserirla in una parabola hai tradito il lavoro di trasposizione.
una vita dovrebbe essere suggerita. come un mosaico di cui sono rimasti solo alcuni tasselli. da quei tasselli, chi vede il mosaico, ricostruisce l'immagine del tutto. ma il tutto è perduto. forse non è neppure mai esistito.