giovedì 5 gennaio 2017

non visto non detto

Alle medie la mia professoressa di italiano distribuiva delle foto ritagliate da riviste varie, a ciascuno la sua, sul banco. Il compito era: descrivi ciò che c'è. Non, descrivi ciò che vedi, ma ciò che c'è.
Non sono mai riuscita a svolgere quel compito. Non sapevo da che parte cominciare. Guardavo l'immagine e, più la guardavo, più mi sembrava impossibile descriverla senza tradirla. Partivo, sì, partivo di solito dalla cosa più evidente, un elemento centrale come, sì, quello che vedevo. 
Se vedevo una un cancelletto, una strada, allora scrivevo: un cancelletto, con dietro una strada. Poi non sapevo dire altro, perché sì, ecco, sapevo che c'era dell'altro, i miei occhi lo sapevano, ma io non lo sapevo dire, perché era come se mi sfuggisse. Tutto mi sfuggiva, perché quell'immagine non sapevo da che parte guardarla, cosa guardarla, da dove cominciare a guardarla. Dal centro, dall'alto verso il basso. Io odiavo la mia professoressa di italiano. Eppure quell'esercizio era importante, utilissimo e, come tutte le cose utilissime, difficile. 
Perché l'oggettività è crudele, chiede alla mente di mettere da parte se stessa, di guardare senza giudicare, di disporre le cose come le cose sono, nell'ordine giusto, di grandezza, spazio, collocazione.
Se mi chiedo adesso: Cosa vedi? di fronte a qualsiasi cosa, anche inventata, anche prodotta dalla mia stessa immaginazione, molte volte non so. Non so. Vedo, ma non ho le parole.
E' poi da quello scontro, tra l'immagine nitida e l'inadeguatezza a dirla, tra le cose e tutti i nomi possibili delle cose stesse, che si compie l'aggiustamento, che si opera la scelta, sempre un po' storta, pencolante, il risultato di un trauma, di uno strappo insanabile, tra l'essere della cosa e il silenzio della sua ombra.


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