venerdì 6 novembre 2015

le foto che non abbiamo fatto

Questa è la nostra storia al punto in cui siamo. Non abbiamo tempo di tornare indietro. Se vogliamo un passato la sola strada possibile è questa: metterci in posa, simularlo.






Foto numero uno
Io  mangio il mio gelato, tu bevi il tuo caffè. Tavolino tondo con tovaglia traforata di plastica. La mia coppa è a forma di cigno. Altri attorno a noi, non siamo soli.

Quando ci siamo seduti tu hai detto che sapevi già tutto. Hai detto che quando ci siamo seduti non era già più l’inizio. L’inizio era prima. Hai detto che quando ci siamo seduti era l’inizio per me. 
Per te l’inizio era prima, era dalle scale della metropolitana, a venire avanti, a scoprire il tavolo e le sedie della piazza, a cercare con lo sguardo quello che poi avresti trovato e avresti visto sempre.
Io avevo la borsa in braccio, leggevo. Facevo finta di leggere, un libro. Facevo passare il tempo perché sapevo che saresti arrivato ma non sapevo quando e non sapevo chi eri. Sapevo che saresti arrivato.

Il tavolo era rotondo e ci siamo seduti. Ma  l’inizio era prima.
L’inizio era prima, quando ancora io non ti avevo visto, quando stavo in piedi e il tavolino non era ancora il tavolino del nostro  incontro.
Era prima. Quello che avevi visto tu era dalle scale della metropolitana.

Non importa come la gente si trova. Non ha importanza. La vita è troppo difficile per imporsi ancora ulteriori regole, non bisogna farsi lo sgambetto da soli, non bisogna avere paura di facilitarsi le cose. Hai detto.

Per facilitarti le cose avevi scelto me.

Sul tavolino ci metto una coppa di gelato e un caffè lungo. Un quotidiano non ancora letto piegato su se stesso come per picchiare un cane, il menù del bar con foto a colori di coppe gelato. Sempre così diverse le foto dal gelato. La foto è lucida, il gelato non può essere lucido. La foto falsa la dimensione: enorme, appagante, una cosa che non finirà mai. Il gelato è la riproduzione imperfetta di quella solennità fotografica.
La realtà è sempre leggermente meno efficace della simulazione. Infatti.





Foto numero due: in un bosco, un albero flesso quasi fino al suolo. I rami sono cresciuti verso l’alto, verso la luce. Ma l’albero ( una quercia?) non è caduto, non c’è frattura visibile sul suo tronco, sembra solo inclinato, come dal vento.

In un bosco ogni cosa umana si rimpicciolisce, prende dimensioni terrene delle foglie, dei piccoli semi, degli insetti e della semplice terra. Siamo rimasti in silenzio a lungo ad ascoltare le cicale e sotto le cicale, un tappeto di api. Hai paura delle api? Ti ho chiesto - Sì, mi hai detto. Le api non fanno niente - ti ho detto - le api non fanno proprio niente, non devi aver paura, ti ho detto. Io ho paura dei cinghiali, ti ho detto. Perché? mi hai chiesto. Non so, ti ho detto, per via dei piccoli forse. Se un cinghiale è madre con i piccoli, se dovesse vedere un pericolo i noi, ci attaccherebbe.
Dunque sarebbe lei che ha paura di noi? Hai detto. Si – ti ho detto, una paura che genera altra paura.
Eccetera- hai detto tu. 
Poi ci siamo alzati ed abbiamo continuato a camminare lungo il sentiero, ma non ci siamo persi. Perdersi potrebbe essere bello ma anche brutto. Perdersi è un attimo. Però è molto difficile perdersi in un bosco, si sta troppo attenti.

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