giovedì 8 settembre 2016

premesse a un non so ancora cosa

cose intelligenti, due o tre, una che ha detto D sul ridicolo, che più una società è ridicola meno sa ridere di sé e più diventa tragica.
poi una sul caso che non mi ricordo più, che mi era venuta in mente a un tavolo del dehor del baretto di Bobbio Pellice
e un'altra sui luoghi, che prima uno sente la necessità di un luogo e poi si rende conto che il luogo in realtà è un alibi per non fare mai le cose che dovrebbe che sono quelle che vorrebbe, che forse non è il luogo, che anzi, il luogo forse non è per niente importante. Anzi, il luogo dev'essere il più possibile causale.
il luogo è il caso. lo diventa.
quindi mi dicevo: devo prendere dei treni, ma non dei treni per andare da qualche parte di serio, solo dei treni di quelle linee secondarie che portano dalla città fuori dalla città, verso le montagne o anche solo in un fuori vicinissimo. Perché non è tanto il posto, ma il fatto di andare a cercare qualcosa con un treno. o forse neanche. solo il fatto di acconsentire a separarsi dal riparo  a cui si è abituati.
andarsene da casa, mettersi nella condizione in cui ciò che accade non è più così consueto da rendersi invisibile.
quindi poi il caso, che si ricollega al dehor. quindi per quello dicevo all'inizio due o tre, perché la seconda e la terza forse erano la stessa.

altro non so.
sì, forse una cosa sulla banalità, sulla paura di essere banali e sulla paura di non esserlo abbastanza. sullo sforzo di dire cose che dicono quelli che possono dire le cose, per non sentirsi dire Ma tu chi sei? come ti permetti di dire le cose in questo modo? ma anche la paura di dire cose già dette.
quindi alla fine una paura come le altre.

e a proposito della paura, anche la paura di non essere capiti o di non essere comprensibili.

poi 
una cosa sulle condizioni.
il fatto di domandarsi se uno deve mettersi in una determinata condizione per poterla descrivere o deve solo stare dove sta. guardare quello che vede da dove sta.

e poi un'altra cosa, che riguarda di più il discorso sulle storie.
pensavo alla finanza e tutto il mondo dell'economia globale e di tutto ciò che presiede alle scelte del mercato globale, che poi si ripercuotono sulla vita concreta della gente  che non ne capisce niente (questa è una cosa che chi mi conosce sa che mi assilla da impazzire). la finanza è come se fosse diventata l'incarnazione del Destino nel senso di Ananke, perché non è dispotica, è semplicemente illeggibile. nessun più capisce niente di quello che succede nel mondo perché, dietro ai fatti che si vedono e che vengono apparentemente descritti o spiegati sui giornali a nelle televisioni o dentro le radio, non riesce a intravvedere niente, non riesce a figurarsi alcuna spiegazione, solo povere e rozze illazioni, che spesso si trasformano in sospetto o, quando va peggio, in delirio persecutorio. però è normale che questo accada, perché è proprio dell'uomo cercare sempre tra le cose un rapporto di causa effetto e, quando questo non si trova o non c'è, si produce una reazione che è anche una specie di nevrosi. un bisogno di congetturare che gira a vuoto, dove alla fine tutto diventa possibile e plausibile, un bisogno disperato che il nulla non sia nulla.
allora mi era venuto in mente che forse questo bisogno di storie che si sente in giro, storie semplici e a volte anche idiote, libri che raccontano di qualcuno che fa una cosa e poi un'altra e alla fine finisce in un modo piuttosto che in un altro come se tutti fossero piatti e vivessero su un pianeta piatto e ritagliato con le forbici, servono per questa specie di fame inappagata e inappagabile causata dal fatto che del mondo nessuno riesce più a capirci nulla. e questo non capirci è tutto, secondo me, perché la finanza, le logiche della finanza, comandano tutto e sono difficili, o imprevedibili o comunque non di immediata intuizione. Mentre un terremoto è di immediata intuizione e anche al limite una guerra di religione o uno che ammazza la moglie perché si è tinta i capelli sono di relativa immediata intuizione. quindi alla fine si sostituisce. non capendo, cercando di darsi delle spiegazioni, si operano delle sostituzioni che sono anche simboliche.
ossia: prendo una cosa di cui non capisco niente e cerco di farmi un modello utilizzando delle cose che ho nella testa e che so che capisco e, mettendocele al posto di quelle che non capisco, facendo che quelle stiano al posto delle altre e simulando delle relazioni causa effetto alla fine sto meglio. è un modo umano per sentirsi meglio, per sentire che la realtà è più sotto controllo. 
e allora pensavo che in una delle storie che vorrei scrivere per scrivere delle storie anch'io, di fiction, ma normali, c'è un supereroe che non so ancora come si chiama che prende dei finanzieri e li rapisce, poi se li prende tra le mani (mani enormi che tengono fino a tre o quattro finanzieri alla volta) e li strizza. li strizza come dei limoni e alla fine li convince a spiegare per filo e per segno come funziona questo mistero dell'alta finanza a tutti, in modo che tutti capiscano perché succedono le cose che poi succedono e la smettano di pensare che le cose che succedono succedono per altre ragioni che non sono quelle.
così poi nella mia storia, che dovrebbe finire abbastanza bene, i finanzieri strizzati se ne vanno tutti strizzati senza più segreti, irrisi da tutti perché non hanno più nessuno charme, nessun mistero, e non possono più farci niente.
così poi la gente può ricominciare a farsi domande veramente grandi sul cielo e la terra e su cosa succede quando si pensa all'infinito per troppo tempo, che ad un certo punto si sente che non si può più, che ci si deve fermare perché più ci si pensa più si capisce che non ci si può pensare,perché non ci sta, l'infinito, nella testa.
è come se il pensiero stesso arrivasse ad un paradosso. che però è anche bellissimo e necessario, perché se c'è una cosa che l'uomo ha, è la fortuna di potersi illudere, e di illudersi delle sue proprie illusioni,che sono giuste, bellissime ed enormi.


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